Di gente che abbia visitato il paradiso è pieno il mondo (almeno quello della fantasia). Me ne vengono in mente alcuni: Mark Twain che, nel suo suo ultimo romanzo "Captain Stormfield's Visit to Heaven", racconta la visita del Capitano al paradiso. Poi Machiavelli, che in punto di morte ha una visione dell'inferno e del paradiso, e ancora Emanuel Swedenborg (1688-1772) che potè visitare le regioni ultraterrene (paradiso compreso) e discorrere con i loro abitanti e poi, naturalmente, Dante, che non solo lo visita ma ne riporta anche una dettagliata guida turistica.

È solo una breve selezione in cui mancano, per esempio e colpevolmente, Santa Brigida di Svezia, San Giovanni Bosco e Santa Caterina da Genova, oltre al mistico Padre Pio e a figure come Maria Simma, i veggenti di Fatima, suor Faustina Kolwaska,il neurochirurgo Eben Alexander, Gloria Polo e la pletora di protagonisti di varie barzellette incentrate sul Pierino di turno che "muore e va in paradiso".

Insomma, se interessa l'argomento si ha solo che da cercare.

Quello che però presento oggi è "Il paradiso degli sciocchi", racconto del premio Nobel Isaac Bashevis Singer contenuto nella raccolta "Zlateh la capra". Lettura agilissima e divertente, per curare certe tetraggini che il nostro tempo non vuole risparmiarci, Che se storie dobbiamo acsoltare, che almeno siano di buona confezione.

 


C'era una volta, da qualche parte, un uomo ricco di nome Kadish. Aveva un unico figlio che si chiamava Atzel. Nella casa di Kadish viveva una lontana parente, un'orfana, di nome Aksah. Atzel era alto, e aveva capelli neri e occhi neri. Aksah era un po' più bassa di lui, e aveva occhi azzurri e capelli d'oro. Avevano circa la stessa età. I due bambini mangiavano insieme, studiavano insieme, giocavano insieme. Atzel giocava a fare il marito e Aksah la moglie. Tutti erano convinti che da grandi si sarebbero sposati davvero.
Ma quando furono cresciuti, all'improvviso Atzel si ammalò. Era una malattia di cui nessuno aveva mai sentito parlare: Atzel era convinto di essere morto.
Come gli era venuta un'idea del genere? Sembrava che gli fosse venuta ascoltando delle storie sul paradiso. Da bambino, aveva avuto una vecchia balia che gli parlava sempre di quel luogo. Gli diceva che in paradiso non era necessario studiare o lavorare o fare alcuno sforzo. In paradiso si mangiava la carne di bue selvatico e di balena; si beveva il vino che il Signore serbava per i giusti; si dormiva fino a tardi e non esistevano doveri.
Atzel era pigro di natura. Odiava alzarsi presto la mattina e studiare le lingue e le scienze. Sapeva che un giorno avrebbe dovuto prendere in mano gli affari di suo padre e non ne aveva nessuna voglia.
Dato che la sua vecchia balia gli aveva detto che l'unico modo per andare in paradiso era morire, aveva deciso di farlo il più presto possibile. Tanto ci pensò e rimuginò che finì col credere di essere morto per davvero.
Naturalmente i suoi genitori si preoccuparono moltissimo quando videro quel che stava succedendo ad Atzel. La famiglia fece di tutto per convincerlo che era vivo, ma lui si rifiutò di crederci. Diceva: «Perché non mi seppellite? Vedete bene che sono morto. Per colpa vostra non posso andare in paradiso».
Molti dottori vennero a visitare Atzel, e tutti cercarono di convincere il ragazzo che era vivo. Gli fecero notare che parlava, mangiava e dormiva. Ma ben presto Atzel cominciò a mangiare sempre meno e a parlare di rado.
La sua famiglia temeva che sarebbe morto sul serio.
Disperato, il padre Kadish andò a consultare un grande specialista, noto per la sua competenza e la sua saggezza. Il suo nome era dottor Yoetz. Dopo aver ascoltato la descrizione della malattia di Atzel, il dottor Yoetz disse a Kadish: «Vi prometto che guarirò vostro figlio in otto giorni, a una condizione: dovrete fare qualunque cosa io vi dica, per quanto strana possa sembrare ».
Kadish accettò, e il dottor Yoetz disse che avrebbe visitato Atzel il giorno stesso. Kadish tornò a casa e avvertì tutti. Disse a sua moglie, ad Aksah e alla servitù che dovevano eseguire gli ordini del dottore senza far domande, e così fecero.
Quando il dottor Yoetz arrivò, fu condotto nella stanza di Atzel. Il ragazzo giaceva nel suo letto, pallido, magro per il digiuno, con i capelli arruffati e la camicia da notte stropicciata.
Il dottore gli diede un'occhiata ed esclamò: «Perché tenete un cadavere in casa? Perché non gli fate un funerale?».
All'udire queste parole i genitori si spaventarono terribilmente, ma il volto di Atzel si illuminò in un sorriso e disse: «Visto? Avevo ragione».
Sebbene Kadish e sua moglie fossero sconcertati dalle parole del medico, non dimenticarono la promessa fatta, e si misero immediatamente a organizzare il funerale.
Atzel era così eccitato da ciò che aveva detto il dottore che saltò fuori dal letto e cominciò a ballare e a battere le mani. La gioia gli aveva fatto venire fame e chiese qualcosa da mangiare. Ma il dottor Yoetz rispose: «Aspetta, mangerai in paradiso».
Il medico ordinò di preparare una stanza che assomigliasse al paradiso. Le pareti furono tappezzate di raso bianco e il pavimento ricoperto di tappeti preziosi. Le finestre furono chiuse e le tende ben tirate. Candele e lampade a olio ardevano giorno e notte. I domestici dovettero vestirsi di bianco e indossare delle ali sulla schiena, per recitare la parte degli angeli.
Atzel venne adagiato in una bara aperta e si tenne una cerimonia funebre. Il ragazzo era così esausto di felicità che dormì per tutto il tempo. Quando si svegliò, si ritrovò in una stanza che non riconobbe. «Dove sono?» chiese.
«In paradiso, mio signore» rispose un servitore alato.
«Ho una fame terribile» disse Atzel. «Vorrei della carne di balena e del vino santo».
«Subito, mio signore».
Il capo dei domestici batté le mani e si aprì una porta attraverso la quale entrarono camerieri e cameriere, tutti con le ali sulla schiena, che portavano vassoi dorati carichi di carne, pesce, melagrane, cachi, ananas e pesche. Un domestico alto, con una lunga barba bianca, portò un calice d'oro pieno di vino. Atzel era così affamato che mangiò voracemente. Gli angeli volteggiavano intorno a lui, riempiendogli il piatto e il calice prima ancora che avesse il tempo di chiederlo.
Quando ebbe finito di mangiare, Atzel disse che voleva riposare. Due angeli lo spogliarono e gli fecero il bagno. Poi gli portarono una camicia da notte ricamata di lino finissimo, gli misero in testa un berretto da notte con un pompon e lo portarono in un letto che aveva lenzuola di seta e un baldacchino di velluto rosso. Atzel si addormentò immediatamente di un sonno profondo e felice.
Quando si svegliò era mattina, ma avrebbe potuto benissimo essere notte. Le imposte erano chiuse e le candele e le lampade a olio erano accese. Appena i domestici videro che Atzel era sveglio, gli portarono un pasto uguale a quello del giorno prima.
«Perché mi date lo stesso cibo di ieri?» chiese Atzel.
«Non avete latte, caffè, panini freschi e burro?».
«No, mio signore. In paradiso si mangia sempre lo stesso cibo» rispose il domestico.
«È già giorno o è ancora notte?» chiese Atzel.
«In paradiso non esiste né giorno né notte».
Il dottor Yoetz aveva dato precise istruzioni su come i domestici dovevano rivolgersi ad Atzel e comportarsi con lui.
Atzel mangiò di nuovo il pesce, la carne, la frutta e bevve il vino, ma il suo appetito non era buono come il giorno prima. Quando ebbe finito di mangiare si lavò le mani in una coppetta d'oro, poi chiese: « Che ore sono?».
«In paradiso il tempo non esiste» rispose il domestico.
«E adesso che cosa faccio?» chiese Atzel.
«In paradiso, mio signore, non si fa niente».
«Dove sono gli altri santi? Mi piacerebbe incontrarli».
«In paradiso ogni famiglia ha un posto tutto per sé».
«Non si può andare a trovare qualcuno?».
«In paradiso le abitazioni sono troppo distanti tra loro, ci vorrebbero migliaia di anni per andare da una casa all'altra».
«Quando verrà la mia famiglia?» chiese Atzel.
«Vostro padre ha ancora vent'anni da vivere, vostra madre trenta. E finché vivono non possono venire qui».
«E Aksah?».
«Lei ha più di cinquant'anni da vivere».
«Dovrò stare da solo tutto questo tempo?».
«Sì, mio signore».
Per un po' Atzel scosse la testa, pensieroso. Poi domandò: « Che cosa farà Aksah?».
«In questo momento è in lutto per voi. Ma sapete bene, mio signore, che non si può piangere per sempre. Prima o poi vi dimenticherà, incontrerà un altro giovanotto e si sposerà. E così che succede con i vivi».
Atzel si alzò e si mise a camminare avanti e indietro.
Il lungo sonno e il cibo nutriente gli avevano ridato energia. Per la prima volta dopo anni, il pigro Atzel ebbe voglia di fare qualcosa, ma nel suo paradiso non c'era niente da fare.
Per otto giorni rimase nel suo cielo fasullo, e ogni giorno diventava più triste. Sentiva la mancanza di suo padre e di sua madre, e aveva nostalgia di Aksah. L'ozio non lo allettava più come un tempo. Ora desiderava avere qualcosa da studiare, sognava di viaggiare, aveva voglia di cavalcare il suo cavallo, di parlare con i suoi amici. Il cibo che lo aveva tanto deliziato il primo giorno aveva perso il suo sapore.
Venne il momento in cui non poté più nascondere la sua tristezza. «Ora mi rendo conto che vivere non è così male come pensavo» disse a uno dei suoi domestici.
«Vivere, mio signore, è difficile. Bisogna studiare, lavorare, fare affari. Qui tutto è facile» lo consolò il domestico.
«Preferirei spaccare legna e trasportare pietre, piuttosto che starmene qui seduto. E questo quanto durerà?».
«Per sempre».
«Restare qui per sempre?» Atzel cominciò a strapparsi capelli per la disperazione. «Preferisco ammazzarmi».
«Un uomo morto non può ammazzarsi».
L'ottavo giorno, quando sembrò che Atzel avesse raggiunto il culmine della disperazione, uno dei domestici andò da lui e, come era stato concordato, disse: « Mio signore, c'è stato uno sbaglio. Voi non siete morto. Dovete lasciare il paradiso».
« Sono vivo?».
«Sì, siete vivo, e vi riporterò sulla terra».
Atzel era fuori di sé dalla gioia. Il domestico lo bendò e, dopo averlo fatto camminare avanti e indietro per i lunghi corridoi della casa, lo condusse nella stanza dove la sua famiglia lo stava aspettando e gli scoprì gli occhi.
Era una giornata luminosa e il sole splendeva attraverso le finestre aperte. Una brezza che veniva dai campi e dai frutteti circostanti rinfrescava l'aria. In giardino gli uccelli cantavano e le api ronzavano volando di fiore in fiore. Dai fienili e dalle stalle giungevano il muggito delle mucche e il nitrito dei cavalli. Felice, Atzel abbracciò e baciò i suoi genitori e Aksah.
«Non sapevo quanto fosse bello vivere» esclamò.
E ad Aksah disse: «Non hai incontrato un altro giovanotto mentre ero via? Mi ami ancora?».
«Sì, ti amo, Atzel. Non avrei potuto dimenticarti».
«Se è così, è ora che ci sposiamo».
Non passò molto tempo che si celebrò il matrimonio.
Il dottor Yoetz era l'ospite d'onore. I musicanti suonavano. Giunsero ospiti da città lontane. Alcuni arrivarono a cavallo, altri a dorso di mulo e altri ancora in groppa a cammelli. Tutti portarono splendidi doni per gli sposi, d'oro, argento, avorio e pietre preziose. La festa durò sette giorni e sette notti. Fu uno dei matrimoni più allegri a memoria d'uomo. Atzel e Aksah erano estremamente felici, e vissero entrambi fino a tarda età.
Atzel smise di essere pigro e divenne il mercante più alacre di tutta la regione. Le sue carovane arrivavano fino a Baghdad e all'India.
Fu solo dopo il matrimonio che Atzel venne a sapere come il dottor Yoetz lo aveva curato, e che aveva vissuto nel paradiso degli sciocchi. Negli anni che seguirono parlò spesso con Aksah delle sue avventure, e più tardi raccontarono la storia della meravigliosa cura del dottor Yoetz ai loro figli e ai loro nipoti, concludendo sempre con queste parole: «Ma naturalmente, come sia davvero il paradiso, nessuno può dirlo».


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