Alla fine, cos'è un viso?
Sono abituato, per lavoro ma anche per dinamiche personali, a parlare con una enorme quantità di persone, quasi sempre senza vederne nessuna in faccia.
A volte lo scambio avviene in forma di rapida e informale chat, altre volte via mail, spesso al telefono.
In nessuna di queste situazioni ho davanti il viso dell'interlocutore.

 

Nel 1965 Borges conosce Astor Piazzolla: dalla loro collaborazione nasce il disco "El Tango", un'opera poco nota ma fondamentale.
Album in studio di Piazzolla con testi tratti da poesie di Jorge Luis Borges.Le cronache riportano numerosi scontri fra Piazzolla e Borges, che si dimostrò particolarmente stronzo. Tra le altre cose, lo chiamava, con disprezzo, "Astor Pianola".
Astor, da parte sua, disse a Borges: "non capisci un cazzo di musica"."El Tango" rimane un'opera impressionante.

 

Da gente di terra e di fieno,
candelieri di ghiaccio alla finestra
e brace mattiniera nel camino,
sollievo del calderaio e del lardo rappreso,

sono emerso per congiunzione astrale
e ho coltivato con tigna ricordi altrui
e sogni di luna piena e di promesse dense
privi di metro, di accordi di versi,
ho sorseggiato fino all'ultima ubriachezza
misteriose bevande senza odore
dolori tetri senza sangue o grumi
buio torbido di sudore e sesso.

La prima volta che ho incontrato l'Umberto è stato sulle pagine di "Apocalittici e integrati".

Avevo pochi anni (nell'aria c'era una diminuzione dei cavalli e un vertiginoso aumento dell'ottimismo) e lui mi parlò di questo tale Milton Caniff di cui ignoravo perfino l'esistenza.

Aprì le prime tavole di Steve Canyon e mi insegnò a leggerle, vignetta per vignetta, dettaglio per dettaglio, filo di fumo per filo di fumo. A me, che non sapevo chi fosse Steve Canyon.

Io che avevo imparato a leggere SUI FUMETTI, imparai a leggere I FUMETTI. O almeno, cominciai a provarci.

Umberto non me lo disse mai esplicitamente, ma mi fu chiaro da subito che quel metodo poteva essere applicato a molte più cose che ai fumetti.

Quando ero bambino, nella valle che era il contorno del mio mondo presente e, presumibilmente, futuro, c'erano un sacco di ceppi. Il passaggio di una linea elettrica di alta tensione aveva portato con sé l'abbattimento di molte querce secolari e i ceppi erano, al contempo, un fastidio, un duro lavoro e una risorsa.

Un fastidio, perché complicavano inutilmente l'aratura dei campi, altari ormai utili a celebrare al massimo la memoria della cattedrale di legno e di foglie che lì era sorta.

Un duro lavoro, perché liberare il campo da quell'ingombro non era una passeggiata.

E una risorsa, perché era tutta ottima legna da ardere.

La fatica per recuperare questi ceppi era tanta e tale che non infrequentemente si ricorreva alla mina e alla polvere nera, con la sicumera di James Coburn nel film di Leone.

Attrup'chè a tutt i petr' d'a via.

 

È un modo di dire nel mio dialetto. Lo traduco come "Inciampare a ogni ciottolo sulla strada".

Si dice di persone permalose, puntigliose, ipercritiche, facili all'impuntatura e allo sbrocco d'ira, pochi inclini a considerare il piano generale (arrivare da qualche parte) e eccessivamente lamentose verso le grandi e, più spesso, le piccole difficoltà del cammino.

Ci sono alcune figure, nell'antropologia di tutte le società, a cui è fatto dono della deresponsabilizzazione: possono dire qualsiasi cosa, senza mai assumersene la responsabilità: sono, per esempio, lo scemo del villaggio, il buffone di corte, il bambino, il matto...

In sostanza, queste persone possono tranquillamente parlare a vanvera e nessuno gliene chiederà conto.

Ieri sera mi era presa la furia di scrivere qualcosa sulla divisione dei toast, sulle pruderie torinesi, sul caldo, sulle prossime esibizioni gladiatorie di miliardari, sulla cotonatura delle bambole, sull'acrimonia con cui una fetta non marginale di brava gente si esercita sulla morte di personaggi pubblici, sulla vita, l'universo e tutto quanto. Niente di meno, com'è ovvio: solo le cose più importanti e più urgenti, su cui io, come chiunque altro, ho originali e interessantissime opinioni e certezze.


Che strani intrecci sviluppa a volte il dormiveglia, che macramè di colori e fili aggrovigliati. Gli ottomani sui moli facevano correre le dita, stabilendo relazioni di corde e di nodi, legami di cuore e di idee, senza pensarci, chiacchierando e fumando in pipe di legno di fico, marinai fra marinai. Il merletto prendeva forma da solo, inseguendo un filo più lungo o un nodo ormai inestricabile (vietate le soluzioni gordiane: non la spada umana ma solo la delicata lama dell'ultima Parca può interrompere il fluire del ricamo) e diventava narrazione, racconto, romanzo, mito. O errore, intorno a cui costruire una nuova regola, un nuovo metro, una variazione nella jam session delle umane passioni.

 

 

La morte è un lento defluire, di fiumara carsica in luglio.

Non è il tranciato violento di una diga, l'interruzione improvvisa e la secca conseguente.

È un lento ritrarsi, negarsi agli occhi, un mutismo assorto, distratto

l'ondeggiare di una tenda bianca nella calura pomeridiana.

 

C'ero, ero qui e ora ci sono di meno

c'erano flutti dirompenti e ora c'è acqua stagnante e un oppresso gracidìo.

Ero qui e ora c'è l'argilla del fondale, crepata dal sole e dall'arsura.

 

Lasciamo quello, forse: l'arsura in gola e una insaziabile sete di respiri.

Noi montanari scesi in città, provinciali col rock, contadini inurbati (cit.), villici in trasferta, studenti fuori sede, aspiranti frequentatori del cinema Orchidea, braccianti lucani, casalinghe di Voghera, pastori sardi padri padroni, "play it again, Sam" oh yeah!
In città ci eravamo venuti, scappando dal villaggio, perché ci avevano raccontato che in città ognuno si faceva gli affari propri.

Questo post è un trucco per portarti a leggere un altro post che Facebook mi impedisce di pubblicare.

 

Devo scrivere un testo ragionevolmente lungo per confondere gli algoritmi di Facebook. Ma dato che non ho voglia, lo farò scrivere a una intelligenza artificiale.

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